Signora Morte, io arrocco.

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Allora, la riflessione è la seguente:
Immaginiamo per un attimo di non essere creature mortali. Immaginiamo di avere davanti a noi l’eternità. Ci saremo. Qualsiasi cosa faremo, noi ci saremo. Non siamo questi fragili esseri che hanno una data di scadenza come le mozzarelle.
Che cosa fareste?
Personalmente ho avuto una reazione a questo pensiero che non mi aspettavo.
La prima cosa che mi è venuta da dire è stata: “Farei tutto quello che voglio fare”.
Buffo no?
Pensare di avere un tempo infinito mi rende coraggiosa, mentre avere a disposizione un tempo limitato mi terrorizza a tal punto che per evitare di fare cazzate, magari ecco…ci penso talmente tanto che alla fine, è ovvio, con tutto quel ragionarci su trovo sei miliardi di ragioni per non farle.
Quindi è così? Poco tempo = non si fa nulla. Tempo infinito = facciamo di tutto. Non lo so. Da una parte mi sembra che abbia una sua logica contorta: la morte che incombe sulle nostre teste ci blocca. Ci fa pensare alle conseguenze: al 730, alle bollette, alle rate da pagare. No? Io se penso alla morte mi vengono anche a mente queste cose.
In una vita ideale dove la morte non ci mette i suoi bastonacci fra le ruote, tendiamo a non preoccuparci delle scadenze, e quindi ad agire liberamente.
Dall’altra parte però è assurdo pensare di buttare via il nostro tempo facendo quello che ci si aspetta di fare solo perchè ad un certo punto dobbiamo schiattare. Dovrebbe essere il contrario… visto che non ho tutto ‘sto tempo eterno mi do da fare, che in parole povere sarebbe “faccio un po’ il cazzo che mi pare e andate tutti a farvi fottere”, ma anche solo la prima parte, senza offese. Era solo per mettere un po’ di enfasi.

LA MIA EREDITA’ GENETICA

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Questa è la vera storia della zia Corinna.
Corinna era la sorella del babbo della mia nonna.

Siamo a Livorno. Inizio Novecento. La zia Corinna era una ragazza di 18 anni, che lavorava il corallo, per una società di Ebrei livornesi. Conobbe un ragazzo e se ne innamorò. La famiglia di Corinna (che poi era anche la mia) non c’aveva un soldo e andava avanti a pane e cipolle. Ma a lei che gliene fregava? Era bella e innamorata cotta. Non la sentiva nemmeno la fame. E le cipolle non le avrebbe mangiate comunque per via dei baci. Quindi non aveva problemi e credo un’invidiabile taglia 40. Che per quei tempi forse non era proprio il massimo. Si, Corinna doveva essere proprio bella, ma non solo bella…come dice la mia nonna: “Era proprio ‘na bella figliola! Ni volevano tutti bene…soprattutto l’omini sai! Vando passava…eh si giravano tutti per guardanni ‘r culo! Era…sai ‘ome si dice? Una bimba socievole…una civettina…ma era una figliola per bene sai! Li faceva guardà e basta eh!”. Insomma…per tradurla dal livornese della mia nonna: era una bella ragazza sensuale e aperta che però, da buona bimba d’inizio secolo, non la dava via.
In ogni caso questa storia comincia così. Una bella ragazza di una bella foto color seppia innamorata di un ragazzo. Quelli erano tempi duri gente…niente soldi, niente camere da letto, niente cessi, niente di niente insomma. Così, quando l’amore di Corinna decise di andare a cercare fortuna all’estero, lei decise di seguirlo. E visto che la famiglia di lei non se la passava tanto bene, decise di andare in Francia con i due futuri sposi. Ma l’amore di Corinna ad un certo punto non si accontentò più di starla a guardare. Le disse che l’amava e che l’avrebbe sposata presto, ad ogni costo. E lei…beh…si… sarà stata l’atmosfera francese, o sarà stato il vino, o che ne so…comunque…al diavolo i bustini, fece l’amore con lui.
E sarebbe stato tutto perfetto se il signore in questione, il cui nome si è perso fra i numerosi ricordi della mia nonna, qualche giorno dopo le disse: “E’ stato bello, ma…ecco, forse hai frainteso le mie intenzioni…io fra poco sposerò un’altra donna. Mi dispiace. E comunque grazie, mi è piaciuto davvero. Ti chiamo eh!”.
E Corinna si ritrovò così. Con il cuore e l’imene distrutti.
Così, una notte seguì il suo amore perduto per le vie di Marsiglia. E lo fermò in un vicolo. E credo gli abbia detto che lo amava. Credo gli abbia detto che era uno stronzo. Non so che cosa gli abbia detto. Ma quello che so è che Corinna si tolse il fermaglio che teneva raccolti i suoi capelli neri, glielo piantò in un polmone, e corse via.
Confessò il delitto alla famiglia e la famiglia decise che era meglio rimandarla in Italia. Così, con l’aiuto del fratello, il mio bisnonno, Corinna fu vestita da uomo e rispedita a casa. Tentò di nascondersi, di scappare, ma la beccarono ugualmente. Fu arrestata e condannata. A quel tempo il suo delitto era considerato un “delitto d’onore”…si, insomma…mi avevi detto che mi amavi, io ti ho creduto, ti ho dato tutto, e tu mi hai abbandonato. Ucciderti mi sembra il minimo insomma. Così la zia Corinna rimase in prigione solo per sei mesi. Quando uscì di prigione era ormai una donna disonorata e svergognata. Nessun uomo l’avrebbe più voluta sposare. Ma le cose non andarono così. Conobbe un uomo siciliano, che la sposò. Ed ebbero due figli: Pietro e Beppe.
A questo punto della storia io guardo felice la mia nonna e le dico: “Che bello! Allora alla fine è andato tutto bene! Alla fine ha incontrato l’amore vero! Eh nonna?”. Ma la mia nonna non perdona e, dall’alto dei suoi 84 anni, mi ghiaccia con la sua spietata descrizione del Siculo: “Macchè! Quello lì era uno stronzo! Gliene fece passà di tutti i’olori povera bimba!”. E questa storia non finisce con un vissero felici e contenti. Non finisce proprio con un “vissero”. Figuriamoci con un “felici e contenti”. No. Corinna morì a venticinque anni mentre faceva la spesa al mercato. Morì di cuore, ovviamente. E di che altro avrebbe potuto morire?
E ci sono cose che non seppe mai. Non seppe che fine fece il marito siculo stronzo, e questo non lo sappiamo neanche noi. Non seppe che suo figlio Pietro divenne un barbiere. Che un giorno smise di tagliare i capelli, abassò la serranda del negozio e cantando Figaro qua, Figaro là come un invasato, si tagliò le vene con un rasoio, schizzando allegramente di sangue i suoi poveri clienti. Che fu rinchiuso, con camicia di forza e tutto, al manicomio di Volterra e che quando ne uscì, morì. Non seppe mai che l’altro suo figlio, Beppe, divenne un delinquente, un ladro contrabbandiere di alcool. Che un giorno disse che andava a comprare le sigarette e che invece nessuno lo vide più. Era scappato in Francia. L’ultima volta che si fece vivo fu nel ’79, pochi giorni prima del matrimonio dei miei genitori. Regalò dei soldi alla mia mamma e fuggì di nuovo dalla polizia. E non se ne è saputo più nulla.
E la zia Corinna non seppe mai che la sua sfortunata storia venne raccontata per anni in uno stornello livornese. E che quando il mio bisnonno la sentiva cantare scoppiava a piangere. E chissà, magari se Livorno era Dublino, anche lei avrebbe avuto la sua statua all’angolo di una strada. Ma Livorno non è Dublino, le ballate non si cantano nei pub, e le storie si dimenticano.
E io non posso fare a meno di riflettere sul fatto che fra le donne della mia famiglia si contano una serie di vedovanze, abbandoni, divorzi, separazioni, e solitudini, che beh…è un bel fardello genetico da portarsi dentro. Certo la mia mamma, in qualche modo, ha spezzato questa catena, ma…sarà come le malattie ereditarie, che si dice a volte saltino una generazione?