Oh my Gaudì!

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Eccomi di ritorno da Barcellona con solo due grandi ricordi stampati davanti agli occhi: il quartiere gotico (si, l’ho letto L’Ombra del Vento, ma comunque camminare fra i suoi vicoli è stato sorprendente) e le opere di Gaudí. 

Ciò che la Natura crea o produce è il motivo per cui l’essere umano ha “sentito” che esisteva una qualche divinità. Ovviamente non esiste nessuna divinità, ma capisco perché ci abbiano pensato. Avete presente quella sensazione no? Quella cosa che ti cresce nel petto e si dirama luminosa fino alle estremità del tuo corpo invadendoti letteralmente anima e corpo e colorandoti di diversi colori. Quella cosa che si trasforma in vera e propria sensazione fisica. In quel momento sei un piccolo essere umano trepidante ed espanso che “sente” l’infinito, che è entrato nel circolo dell’esistenza universale. Non c’è nessun problema, solo te e la bellezza del mondo intero che ti passa attraverso. E godi! Dio santo se godi!

Ecco, questa secondo me è la sensazione che  si ha in presenza della Natura e delle grandi Opere d’Arte. Figuriamoci allora se parliamo di Gaudí. Si, perché questo genio ha preso entrambe le cose, la Natura e l’Arte, e le ha fuse insieme. Il risultato è stato una roba da levare il fiato, da rendere superfluo ogni commento, che non sia “oooooh” con la bocca spalancata.

Certo che avevo sentito parlare di Gaudí. Ovvio che prima di partire mi ero comprata l’iperdettagliata Lonely Planet e avevo visto le foto delle sue opere su Google. Ma il discorso è sempre quello: puoi fare tutto questo ma non sarai mai preparato a come reagirà il tuo corpo di fronte alle cose. Pensate a una foto dei grattacieli di New York, roba già vista, ma solo salendo sull’Empire State Building ci si può sentire Spiderman. Oppure puoi vedere tutti i documentari di Sky sulla Cappella Sistina, ma lo stesso, alzando gli occhi a quel soffitto rischi lo stesso la sincope-da-arte. Ecco, con Gaudí è stato più o meno così. Avevo visto le foto ed avevo pensato: “Ma che bello! Guarda ganzo lui! Le ceramichine colorate e il Liberty!”.  Poi però alle sue opere mi ci sono trovata davanti, ci sono “entrata dentro”, ed è avvenuta la magia.

Cosa ci può essere di più armonico e perfetto della Natura? Si sa, niente. E infatti da che mondo e mondo gli artisti l’hanno imitata, riprodotta, trasformata in numeri e proporzioni. L’hanno immortalata ognuno a modo suo e ci si sono ispirati per fare ritratti, paesaggi, chiese, di tutto.

Ma Gaudí è andato oltre. Quest’uomo è riuscito a creare capolavori architettonici che fondono in un insieme perfetto forme della Natura, Arte, Architettura, Artigianato, Sogno e Fantasia.

 La Casa Batlló era semplicemente la vecchia casa del Signor Batlló e famiglia, non è un’opera d’arte in senso stretto, e questa cosa mi fa impazzire: lui gli ha chiesto di “rimettere a nuovo il modesto edificio” e il risultato è Patrimonio dell’Umanità. Sembra una grande creatura vivente, che si sta innalzando lì davanti a te e sta cambiando mentre la guardi. Sta lì, con le sue grandi ossa scheletriche della facciata e i suoi vetri colorati, e si muove, ondeggia: incredibile. Sono andata a visitarla dentro, perché non potevo non andarci. Ed è stato come entrare dentro ad un mondo irreale, giuro. Tutto si muove intorno a te, addirittura i corrimano delle scale e le maniglie delle porte si plasmano sotto la tua mano (non scherzo, è così che le ha fatte! Plasmate nell’argilla). Cominci a salire una strana scala di legno, e dico strana perché lì per lì non capisci cosa ci sia di strano. Poi la guardi bene e ti accorgi che sembra proprio una spina dorsale, di una creatura enorme. E ti avventuri coraggioso al piano di sopra. Nel salotto le porte, le finestre, i pavimenti e le colonne si allargano quando passi, sembrano morbidi confini di un tuo sogno personale. Quindi, in realtà, non sei lì che ascolti la tua audioguida: sei dentro alla tua fantasia, a letto che dormi. E il mondo fuori è uno scherzo. Alzi lo sguardo e ti accorgi che sei in mezzo ad un vortice: il soffitto sta girando sopra di te. Meglio uscire di qui. E mentre continui ovattato nella tua mente ti ritrovi all’improvviso in fondo al mare. In realtà stai passando intorno allo stretto cortile interno che va dritto verso l’alto, ma il genio ha messo dei vetri ondulati fra te e le mattonelle blu cobalto sempre più scure mano a mano che salgono, quindi si, sei in mare. Ad un certo punto eccoti in quella che era la sala da pranzo. Mi sono avventurata attraverso le ondulate porte finestre, sul coloratissimo patio e… mentre cammino lì fuori mi accorgo che… anche pavimento è ondulato. Ondeggia sotto i miei instabili piedi. Continuando a salire, il mondo di colori e forme svanisce e ti trovi improvvisamente in un silenzioso, bianco, strettissimo… costato. Si, perché è quello che è: una specie di cassa toracica. Il vento e la luce passano attraverso il costato: la casa respira. Cammini in stretti corridoi bianchi sormontati da stretti archi, che sembrano assolutamente costole. Le attraversi e fuoriesci da una stretta porta che si apre sul tetto e lì ti rendi conto di chi era la grossa gabbia toracica che hai appena attraversato: di un drago. Davanti a te c’è il tetto, o per meglio dire un grande dorso a scaglie. Eccoti lì, che domini i tetti di  Barcellona a cavallo del tuo Ungaro Spinato! I 18,00 euro meglio spesi della vacanza Signore e Signori. Hai appena fatto un giro nel Luna Park della tua mente. 

Altra attrazione (fortunatamente) gratuita creata dal Genio è lo strafamoso Parco Güell. Sono arrivata un po’ scoglionata a dire la verità, perché abbiamo percorso in toto quella che credo sia la strada più brutta della città, perché non trovavamo le indicazioni. Dopo 10 anni di viaggi in Gran Bretagna, dove ci sono cartelli che ti ricordano anche di respirare, ho notato che tendo a perdermi in qualsiasi altro posto. Ma il problema deve essere mio perché le orde di turisti al Parco ci sono arrivate tranquille, mentre io mi sono bruciata un po’ l’effetto sorpresa perché, oltretutto, sono entrata dall’uscita. Il tutto mi è parso sinceramente nulla di che, fino a quando non mi sono trovata improvvisamente intrappolata nell’enorme scheletro pietrificato di una creatura giurassica. Ero stata nuovamente catapultata nel fantasioso mondo Gaudiano. Fra una Salamandra gigante, colonne di pietra arrotolate su loro stesse, un Tempio Greco e una massa di gente che sfortunatamente ti ricorda che non sei nel paese delle Meraviglie, ma nel paese del turismo di massa. 

Il giorno dopo, quando arrancando sono arrivata in cima al promontorio del Montjuic, la Sagrada Familia svettava su tutta la città, in lontananza. E mi sono ricordata di aver letto che Gaudí era un uomo profondamente religioso, che si ispirava alla Natura certo, ma che credeva che niente potesse superare la creazione divina. Per questo le guglie della Sagrada Familia, con i loro 175 metri, sono di pochi metri più basse del Montjuic. L’uscita della fermata della Metropolitana, che si chiama appunto “Sagrada Familia”, è messa in modo che, salendo le scale per uscirne, non ti rendi conto subito di dove ti trovi. Quindi ti volti, da turista perso, per vedere dove devi dirigerti te la trovi davanti. Alzi gli occhi al cielo piano piano ed eccola lì. Incombe davanti a te, immensa. Mi sono fermata un po’ lì a vedere le facce che facevano i turisti non appena, ancora ignari, si voltavano e la vedevano. E vi giuro che, su quelle facce lì, ci dovrebbero fare un documentario. Facce che esprimono, non ci vuole Tim Roth per dirlo, meraviglia e stupore. Non ho mai visto niente di paragonabile a quella chiesa, niente che lontanamente le assomigli. Sembra un enorme termitaio appena uscito dal terreno, ancora con la terra appiccicata sopra. E la sensazione è che ti si stia come sgretolando davanti agli occhi. In una delle facciate, la pietra si “scioglie” creando figure, decorazioni e uccelli che nati direttamente da essa tentano di volare via. Ti aspetti che da un momento all’altro le enormi guglie cominceranno a sciogliersi come candele. Mentre di fronte alla facciata opposta, è opposta anche la sensazione: qui le guglie sembrano essere trattenute a terra da … mi verrebbe da chiamarli enormi “tendini” di pietra. Mi avevano sconsigliato di entrare perché “più bella da fuori che dentro”. Non mi ricordo chi furono questi stolti, ma non mi sono fidata, e ho fatto bene. Anzi ho fatto il biglietto che comprendeva anche l’ingresso alle torri. Ho attraversato una “foresta” vera e propria di colonne che si allargano sul lontanissimo soffitto in volte che ricordano enormi fiori e foglie, totalmente persa a fissare quei giochi di luce creati da questo tutto e mi sono diretta alle ascensori. Salire su quelle guglie è stata una delle cose più spaventose che ho fatto. Io non soffro di vertigini né niente, ma il fatto è che sono bucherellate. E quando sei su uno di quei mini-terrazzini ti sembra di volare di sotto tipo Assassin’s Creed dai tetti di Firenze. Sei totalmente in balia di qualcosa che sta per sciogliersi sotto ai tuoi piedi.

Il grandissimo Gaudí, che ha dedicato 40 anni a progettare questa chiesa e gli ultimi 15 ha vissuto nel cantiere, è sepolto nella cripta della chiesa. E’ stato investito da un tram lì a Barcellona. Anzi, dal primo tram che girava in città. Durante la dittatura franchista e la guerra civile spagnola il suo atelier nel cantiere della chiesa è stato distrutto e con lui quasi tutti i suoi progetti. Quindi i lavori si concentrano e si inspirano a quello che ne è rimasto. Magari non sarà proprio come lui l’aveva concepita in tutte le sue parti, ma di sicuro gli rende omaggio. Perché anche qui, come nelle sue altre opere hai la sensazione fluttuante e potentissima di essere di fronte a qualcosa che arriva verso di te, ma che parte anche da te. Un travolgente tutto, di cui fai parte anche tu. E per certi versi in questo caso specifico è così, visto che con il biglietto d’ingresso finanzi la sua costruzione.

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In my Place

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Non so se esiste un nome per quelli come me. Quelli che risentono talmente tanto dell’ambiente circostante da esserne influenzati a tal punto da stare male se posizionati in un posto che ritengono brutto. Io sono così. E non è facile, essere così.
Per esempio quella della pietra, del legno e del verde per me è una vera e propria ossessione.
Io non sto per niente bene, anzi soffro proprio se mi trovo in un posto minimale, in un posto brutto e lasciato al degrado, bianco, e con troppo acciaio o cemento. Più una cosa è vicina alla natura, vecchia, e usurata con garbo come solo il tempo e l’ambiente sanno fare, più io ne sono affascinata.
Mi siedo, chiudo gli occhi e vedo una casa di pietra, con l’edera che si arrampica sui muri, sento l’odore del muschio, vedo le casette per uccelli sugli alberi nel giardino, percepisco l’aria piena di acqua che mi rinfresca e mi rigenera lo spirito e mi fa sorgere pensieri nuovi, sento l’antico, il semplice, il disordine confortevole. E. Sto. Bene.
Toglietemi le fredde mattonelle, eliminate il parquet innaturalmente tirato a lucido, riducete a trucioli i mobili e le porte laccate, fate sparire qualsiasi cosa sia di acciaio, colorate gli spogli muri bianchi, donate a istituti di carità gli squadrati divani dell’ikea, scalpellinate il marmo finchè non ne resta mezza briciola, buttate via i soprammobili, sono orrendi.
Datemi per favore legno grezzo, il cotto, tappeti, vecchi divani un po’ sfatti, stendetemi tappeti di lana, colorate i muri, mettete calde tende alle finestre, spargete ovunque libri e se volete proprio farmi felice costruitemi un camino e accendete il fuoco.
Mettete su il caffè. Mettete i biscotti nel forno. Datemi un libro, aprite le finestre per far entrare l’odore di piante bagnate e di legna bruciata in lontananza.
E mi troverò ad abitare un posto molto simile a quello che c’è dentro.

“La giornata era finita – un giorno tra tutti i miei giorni. Domani ce ne sarebbe stata un’altra e io ero giovane.”

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“Ogni tanto sui giornali, sulle riviste e nelle biografie dedicate alla mia vita trovo educatamente formulata l’idea che feci il vagabondo per studiare sociologia. E’ gentile e premuroso da parte dei biografi, ma è sbagliato. Feci il vagabondo, beh, a causa della vita che era in me, della bramosia di viaggiare che avevo nel sangue e che non mi concedeva di stare fermo. La sociologia è stata una scusa, è venuta dopo, allo stesso modo in cui ti trovi la pelle bagnata dopo un’immersione. Io andai sulla strada perchè non potevo starci lontano; perchè in tasca non avevo i soldi per il biglietto del treno; perchè ero fatto in maniera da non poter lavorare tutta la vita allo stesso turno; perchè, beh, ma semplicemente perchè era più facile che non farlo.”

Chi scrive ovviamente non sono io. Chi scrive è Jack London. Io non avrei potuto. Io se mi fossi messa a rincorrere un treno merci in corsa per salirci al volo sarei subito finita sulle rotaie.
Leggere Jack London è come prendere un cucchiaino e scavarti lentamente un lungo tunnel fino a meandri che sapevi essere lì, ma mica più di tanto. E una volta arrivato infondo sorprendere una vocina accquattata che dice: “Ops, mi hai scovato! Beh, ce ne hai messo di tempo!”.

Davanti a casa nostra c’è un ruscelletto, che d’estate si secca e diventa un villaggio vacanze per rane, ranocchi e rospi, che passano le nottate estive a gracchiare del più e del meno. La stradina dove si abita è chiusa e quindi non passa quasi mai nulla e nessuno. Beh qualche tempo fa stavo in giardino, seduta sugli scalini di casa, saranno state circa le undici di sera, è venuto il cane e mi si è seduto accanto. Io lo stavo accarezzando così, pensando ai fatti miei. Ad un certo punto gli tenevo la mano fra la spalla e la sua pancina pelosa e… ho sentito il suo respiro e il suo cuore, e allora l’ho guardato. Se ne stava lì tranquillo, fermo, ad annusare gli svariati odori portati nell’aria, e viveva. E l’ho visto non come il mio adorabile cagnetto giocherellone e pazzo di sempre, no, l’ho visto per quello che è: un animale. Ho “sentito” la sua natura. Ho avuto un secondo d’illuminazione in cui ho sentito che le cose che ci sembrano importanti hanno un così scarso valore nell’ordine naturale delle cose da rasentare praticamente lo zero.
Siamo il parto di una madre che ha in sè talmente tante sovrastrutture create artificialmente da non essere più nemmeno vagamente riconoscibile come donna. E siamo talmente tanto attaccati a queste sovrastrutture da non riuscire neanche a godere del bello che l’essere umano è riuscito a creare.
Siamo così abituati a vivere in questa artificialità da non vedere neanche più negli hamburger al supermercato degli animali, qualcosa che era più legato alla natura di quanto noi potremmo ormai forse più essere. Qualcosa che solo per questo non si guadagnava la grazia di essere tolto dalla nostra catena alimentare, quello si sarebbe innaturale, ma il diritto di essere trattato con rispetto quello si, se lo guadagnava tutto.
La consapevolezza di essere in un certo modo ti porta per forza di cose, ad un certo punto, a fare un bilancio di quello che per te è importante.
Poi, da qui ad eliminare quello che non lo è, il passo è breve, ma infinitamente lungo.
Ho vissuto per un anno con la maggior parte della mia roba dentro a scatoloni. Quando ho aperto quegli scatoloni vi ho trovato dentro una serie di cose di cui pensavo sinceramente di non poter fare a meno, disposte con cura per essere tirate fuori per prime. Le scatole le ho richiuse con il loro importantissimo contenuto e verranno presto gettate via. Non ne avevo mai avuto bisogno, solo che non lo sapevo.
Mi chiedo di quante e quali cose ci siamo fatti carico perchè la nostra sovrastrutturata madre ci aveva insegnato a ritenerle fondamentali.
Quanto tempo, spazio, energia e soprattutto denaro ci stanno costando e ci costeranno? La cosa buffa è che crescendo sembra che occupino sempre più spazio, e che costino sempre di più.
Poi lo guardo negli occhi e ho la strana sensazione che quello di cui abbiamo bisogno in realtà sia molto più grande di noi e che anzi ci contenga, che ce lo abbiamo già o che sia a portata di mano, e che… sia gratuito, o quanto meno che abbia un prezzo maledettamente abbordabile!

IL RILANCIO DI LIVORNO. io, passo.

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Hanno aperto una libreria a Livorno. Un libreria di quelle grandi intendiamoci, da grande città, tipo Firenze, Milano, Roma, capito il tipo no? Si mormora in giro che vogliano trasformare la labronica landa in una vera città.
Innanzitutto hanno tirato una gettata di cemento e l’hanno popolata di pali della luce e nominata “Porta a Terra”, nome suggestivo.
“Porta a Terra” comprende:
LE TORRI, che uno pensa di trovarci Sauron e Saruman, e invece ci trova Decatlhlon e L’AC Hotel.
IL PALALGIDA, o come lo chiamo io il PalaTETTA. Se lo vedeste capireste il perchè. Chi l’ha progettato, o era un grande fan di Woody Allen o era uno che da piccolo non è stato allattato dalla mamma ed è cresciuto con gravi turbe.
LE FONTI DEL CORALLO, un centro commenciale in cui regnano le incessanti urla dei bambini, un luogo per famigliole dove regna il gelo in estate e l’inferno di fuoco in inverno, dove potete trovare gli stessi negozi che ci sono nel resto della città, solo che qui sono in versione mignon, e il fiore all’occhiello: L’IPERCOOP. All’inizio l’Ipercoop si chiamava La Poletaria (ah ah ah), fondata da operai, impiegati ed artigiani, era nata per aiutare la popolazione stremata dalla fame. Oggi invece sembra che vogliano ridurre la suddetta popolazione alla suddetta fame.
CASTORAMA, dove si possono trovare le stesse cose che si trovano nelle ferramenta, ma ad un costo cui il ferramenta venderebbe se stesso.
E, dulcis in fundo…
IL MEDUSA MULTICINEMA, dove per vedere un film mangiando pop corn puoi spendere fino a 15€, che peraltro ha causato la chiusura di praticamente tutti i cinema di Livorno, quelli col sipario rosso, quelli dove potevi sederti dove volevi. Nota bene: se siete studenti non avete sconti, ma se siete militari o tifosi di calcio si, però dovete presentarvi con la sciarpa della vostra squadra del cuore! Che state aspettando??!!
Ma andiamo avanti…
Hanno ristrutturato un albergo, L’HOTEL PALAZZO, vecchio orgoglio del lungomare livornese, nell’Ottocento forse, perchè a memoria d’Homo Sapiens è sempre stato abitato dai topi, a proposito… dove sono finiti tutti quei topi? Qualcuno li ha visti per caso? Vabbè, comunque…
Hanno aperto ZARA, capito! C’è Zara a Livorno, una gran cosa. Una volta ero sul bus e ho sentito una vecchietta dire ad un’altra: “Ci sei già andata da Sara, ir negozio novo?” E l’altra rispondere: “No, ma ci voglio andà! dev’esse bello!” e me le sono immaginate vestite con i pellicciotti sioux del primo piano. All’inizio vedevi gente improbabile a giro con la bustina di Zara. Tutti avevano una bustina di Zara in mano. Ho anche pensato che ci fosse un negozio che vendeva bustine di Zara a metà prezzo. Poi mi sono a”zara”data ad entrare uno dei primi gioni di apertura e mi sono resa conto che in effetti c’era tutta Livorno dentro. Dai punk abbestia, alle ragazzine stampino, agli emo, alle vecchiette con le buste della spesa che mi conficcavano spine dei carciofi negli stinchi mentre cercavano di passare avanti a me alla cassa. Tutti da Zara. Olè. Ci s’ha finalmente qualcosa da fare. Peccato la crisi. Ma tranquilli, i prezzi non sono poi così alti… L’unica cosa, ragazzi, se posso permettemi: ma le taglie che avete sono le taglie convenzionali europee? Perchè mi pare vi teniate un po’ sullo strettino, o sul larghino, senza vie di mezzo.
Ti provi una 42, non ci stai, diventi blu. Ti provi una 44 e ci navighi… Se la trovi la 44. Perchè di solito ti rispondono: “No, c’è solo la 40, o la 38”. E tu rispondi: “No, grazie, la 38 l’avevo trovata anche da Prenatal in Rosa shocking”. E te ne vai pensando di essere un freak della natura.
Comunque, vabbè…. dopo averci dotato di una giungla d’asfalto e lampioni dove quando parcheggiate avete in tasca 100€ e quando andate via la vostra unica speranza è rubare il carrello ad una vecchietta per recuperare almeno un euro… dopo un albergone dove puoi fare l’aperitivo sul tetto a 12€ (però si vede il mare! Perchè? Il mare non si vede gratis anche dalla strada?), dopo averci dato un posto dove vestirci (se trovi una taglia che ti stia), viviamo la rivoluzione culturale!
Apriamo una libreria!!!
La storia del posto in cui l’hanno aperta vi può dare una vaga idea della sfida lanciata alla popolazione. Il Teatro Lazzeri. Per chi non è di queste parti un breve riassunto: dai suoi albori (gli anni venti) fino a…di preciso non si sa quando…è andato alla grande… era un teatro famosissimo, ci facevano addirittura le anteprime delle turnè. Poi, da quando mi ricordo io è sempre stato un cinema porno. Mi ricordo che quando ero piccola passavo da quella strada, vedevo i manifesti e pensavo che da grande mi sarebbero venuti i capezzoli a stella…Insomma questo bellissimo luogo, che chissà quante seghe ha visto, oggi è una libreria. Una volta un vecchietto m’ha detto: “Sai, io qui c’ho visto La carica dei Seicento!” e io: “Ah bello, spero fosse quando era un teatro e non dopo!”. Ma non l’ha presa…
In ogni caso… Come prenderanno questa novità i livornesi? Loro si sa appena c’è una cosa nuova ci si fiondano dentro, non guardano nemmeno se è un barile di merda, loro si tuffano e via.
ll giorno dell’inaugurazione ero fuori dalle porte che aspettavo di entrare e con me una bella calca di gente. Il primo commento che ho sentito è stato:
“Nooo! Ma cos’è? ‘Na libreria? Ma ‘na libreria vera? Come quelle dei firme?”
Il secondo:
“Boia deh! Oh se ci facevano ‘na discoteca un’era meglio?”.
Appena si sono aperte le porte è stato uno spingi spingi generale. Dopo mezz’ora dentro non ci si camminava nemmeno. C’era anche il sindaco, pensa un po’. Ed è iniziato il delirio. C’era gente che, in mezzo a quella bolgia dantesca afferrava libri a caso: laureati con Geronimo Stilton, Vecchiette con Il Manuale ufficiale del Linguaggio Java, bambini sul passeggino con Trainspotting, un casino….. Tutti che volevano un libro… che spingevano, urlavano, sgomitavano. Tranquilli, se fosse stata l’apertura di un negozio di motoricambi, avreste visto vecchiettine con marmitte in mano sgomitare fino alla cassa.

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